Il giorno più faticoso della mia vita

20 novembre 1970

 

Il risveglio č disastroso. Scendo dall’amaca con la schiena indolenzita e le gambe molli. Riesco a malapena ad infilarmi e ad allacciare gli anfibi. Ho nausea allo stomaco e la testa č confusa. Ricordo che questa notte ho parlato con Gesů Cristo. E, poi, di essermi rivolto allo Spirito Santo. Mi viene da ridere.

Ecco, questi sono gli effetti dell’hascisc e dell’alcol: allucinazioni, solo allucinazioni…

 

Esco dalla capanna in cui ho passato la notte. Dican č seduto davanti alla porta della capanna. Lo fotografo.

Mi guarda con preoccupazione. “Hai un aspetto spaventoso, mister George” – nota. “Non hai dormito bene?”.

“No, Dican, č stata la “merissa” e il troppo fumo. Non mi tengo in piedi; sono stanchissimo…”

“Lo vedo… Ascolta, i guerriglieri ti stanno attendendo per partire… Ma, io, mister George, non ti lascio partire. Sono responsabile della tua incolumitŕ. In queste condizioni non faresti neanche dieci miglia.”

 

Mi faccio preparare dalla donna di ieri sera una tazza di tea. Questa mattina č vestita ed ha il bimbo in braccio. Vestita, č anonima. Dovrebbe andare in giro sempre nuda. Solo per una questione di estetica. Bevo solamente un po’ di tea con Dican, poiché lo stomaco č chiuso.

 

Mi viene incontro il comandante degli Anya-Nya del villaggio. E’ molto alto, vestito con una vecchia divisa dell’Equatoria Corps, un berretto floscio su cui brilla il distintivo degli Anya-Nya: un bufalo che carica. Era uno dei sergenti dell’Equatoria Corps che iniziň la ribellione con la guarnigione contro il Nord, a Torit, nel 1955. Durante la Seconda Guerra Mondiale aveva combattuto contro gli Italiani in Etiopia. Attualmente, era ancora sergente ed addestrava i guerriglieri a darsi un contegno piů militare.

 

Si unisce a noi Manasse. Dican parlotta con lui e con il sergente, indicandomi ogni tanto.

Manasse si avvicina, e: “Non puoi andare in queste condizioni” – mi dice. “Lŕ, i guerriglieri stanno per partire. Perň, dice il sergente, che sono anche pronti a fare esercizi di addestramento per il tuo film.”

Annuisco, stancamente. Proprio non mi tengo in piedi…

 

Mister George, devo avvisarti di una cosa. Non puoi riprendere tutto ciň che vedrai…”

“Attraverso il villaggio di Adodi – precisa Manasse – passano il rifornimenti militari per il Fronte, provenienti dal Kenya. I rifornimenti vengono scaricati in piccole piste nella savana da piccoli aerei da trasporto. Sono poi trasportati fin qui a spalla…”

 

Usciamo da Adodi, che ha l’aspetto di un villaggio provvisorio, come se non dovesse rimanere tale a lungo. Intorno, ci sono larghi spazi di savana bruciata. No, non č il terreno preparato per la semina. E’ stato il napalm dei Mig sovietici. Mi dice Dican: “Guarda quella capanna, lŕ in fondo, č stata bruciata …”

 

Stanno comunque tentando di iniziare diverse colture di cereali e frutta, ma č troppo presto per raccogliere i prodotti e sono quindi riforniti dal magazzino.

   Il lavoro dei campi č anche svolto da prigionieri civili. Tra essi c’č pure una donna condannata per adulterio.

Un grosso fiore bianco mi attira e lo fotografo.

 

I guerriglieri sono giŕ lŕ, in uno spiazzo, schierati. Inizia l’addestramento con il sergente che dŕ ordini secchi in dialetto arabo, poiché ci sono guerriglieri di diverse tribů e il dialetto arabo č una lingua franca, come per secoli lo č stato il latinoin Occidente, mentre oggi č l’inglese.

Questi ragazzi sono veramente bravi e coordinati. Pure, quando si mimetizzano con erbe, foglie e rami. Solo quando strisciano sul terreno tengono i piedi troppo alzati …

 

I guerriglieri che stanno partendo per Iddo hanno armi di tutti i tipi.

In maggioranza ci sono i vecchi Sten, con tre caricatori ciascuno, gli Enfield, con cinquanta colpi a fucile e i Bren, con quattro caricatori ciascuno (Foto 82).

   C’č un guerrigliero con un Kalashnikov cinese preso ai Simba, con un caricatore da trenta colpi, da sparare a colpo singolo.

   C’č il mitra tedesco, con un solo caricatore, e un fucile Tokarev sovietico a ripetizione con tre caricatori. I guerriglieri sono vestiti con divise kaki, qualche mimetica, abiti a brandelli. Oppure, seminudi.

   C’č un guerrigliero, magro e brutto, con le gambe storte, vestito solo di un perizoma di pelle, tipo Tarzan, con un copricapo formato da un teschio di animale con pelliccia e piume,… ma armato con un altro bel Kalashnikov, che perň non andrŕ a combattere. Rimarrŕ di guardia al villaggio. Fa, comunque, paura a vedersi.

 

Giro una breve sequenza di guerriglieri armati di sole lance, archi e frecce, asce e machete.

Meglio non fare vedere nel film che nel Sud ci sono anche guerriglieri privi di armi da fuoco.

 

Riprendo tutto, stancamente, sotto il sole giŕ cocente, con la cinepresa collocata sul treppiede, e contemporaneamente scatto qualche foto. Un lavoro durissimo, poiché eseguito da solo e in quelle disastrate condizioni psicofisiche.

 

Consegno al comandante del gruppo di combattimento fasce, garze, polvere di penicillina, cerotti e tutto ciň che di sanitario ho con me. Ad un giovane Denka stroncato dalla malaria regalo un certo numero di pillole di Nivachina.

 

Cerco di corrompere quello del Kalashnikov con il caricatore da 30 colpi per farmi vendere almeno una pallottola da portare a Mario Arrŕ per la sua collezione di armi e munizioni. Gli avrei dato pure alcune sterline. Niente da fare. Mi dice che quella pallottola potrebbe rappresentare la sua vita o quella di un Arabo.

 

Infine, il gruppo di combattimento parte per Iddo e io lo riprendo mentre in fila indiana se ne va, con le armi posizionate in  atteggiamento guerresco. Poveri ragazzi… Quanti ne ritorneranno?

 

Nei pressi di una capanna sono accatastate le cassette di munizioni provenienti dal Kenya. Alcuni amministratori le aprono e mi mostrano il contenuto.

   In due cassette ci sono bombe da mortaio di piccole dimensioni. L’effetto sarebbe quello di due bombe a mano. In quattro cassette ci sono le bombe a mano di tipo “ananas”. Altre cassette contengono scatole di munizioni per mitra e fucili. A terra, avvolte un alcune coperte, ci sono munizioni per bazooka. Appoggiato alla capanna un bazooka Piat per la fanteria inglese.

 

Proprio mentre sto osservando, arrivano dei portatori con cassette di munizioni per Enfield e per mortaio. Hanno fatto circa cento miglia a piedi per questa miseria?

Tutto qui per sconfiggere i soldati arabi? Oppure, le munizioni che gli Israeliani forniscono servono solo per mantenere una spina nel fianco del governo sudanese?

 

Mi guardo bene dal riprendere con la cinepresa e la macchina fotografica le cassette di munizioni.

 

I bambini di Adodi

 

Mi riposo un poco. Poiché le cineprese sono pronte, desidero riprendere un po’ di vita del villaggio. Inizio con i bambini.

   Chiedo ad un maestro di scuola di organizzare qualcosa con i bambini che sono lě. I piů grandi hanno otto, nove anni, mentre i piů piccoli ne hanno tre o quattro. Qualcuno ha il pancino gonfio e i capelli crespi che stanno diventando biondi. E’ la fame?

Mi risponde Dican: “Forse hanno parassiti intestinali… Qui, perň, non c’č la fame, perché coltivano qualcosa e poi ci sono i rifornimenti dal “magazzino” e dall’Uganda, che č a venti miglia da qui . E se gli Arabi non arriveranno prima col napalm, faranno diversi raccolti all’anno di “durra”, mais e manioca”.

 

“Se, perň, ti addentri di cinquanta miglia all’interno, da quella parte verso nord – continua Dican – allora laggiů troverai la fame, quella vera, con i bambini dai capelli biondi, scheletrici e con la pancia gonfia di vermi. Laggiů, molti muoiono di fame, di dissenteria, di bilarziosi, di kalaazar – che č una violenta febbre malarica – polmonite, tubercolosi, epatiti infettive, filariasi, meningite, vaiolo, varicella, morbillo, poliomielite ed anche di semplici raffreddori. Queste sono cose da documentare nel film, altro che filmare i guerriglieri…”.

 

Rimango in silenzio per un po’. Poi dico: “Adesso voglio passare in Uganda, rimettermi in forze, rifornirmi di viveri per affrontare il viaggio e andare dove posso trovare i bambini che muoiono di fame.”

Aggiunge Dican: “E troverai pure lebbrosi, che non possono essere trasportati nei lebbrosari ugandesi. Troverai tante malattie tropicali, gente che soffre e muore in solitudine. Troverai solo qualche prete sud sudanese che č rimasto qui e che organizza gli aiuti con i missionari che sono nei campi profughi”.

 

“Sě, farň proprio cosě” – dico, come parlando tra me e me. Le ferie finiranno, penso, ma chissenefrega delle ferie e della Banca. Qui ci sono delle vite in ballo e devo testimoniare a tutti, agli Italiani, a Ciaffi e a Fanfani, che qui la gente combatte e muore di fame e che con le veline pro-governo sudanese che il Governo italiano dŕ alla stampa, a quel punto, ci si pulirŕ… il di dietro.

 

“Ritorno in Uganda, – ripeto a Dican – mi riposo qualche giorno, acquisto viveri, scatolette di carne, di sardine e di legumi, latte in polvere, tea, zucchero, sale, munizioni per Sten ed Enfield, qualche divisa militare per motivare la mia scorta, e, quindi, ritorno qui”.

“Ascolta – chiedo – potrň avere la scorta?”

“Sě, ti procurerň una scorta armata e farň in modo che anche tu sia armato, con una buona arma che non si inceppi. Non ti farň avere uno Sten, di sicuro…”

Magari, fosse un Uzi israeliano, o un Thompson 45 – un sogno! – ma non ci spererei troppo…

 

Ho l’impressione che Dican non sia solo un amministratore civile. Magari č pure un amministratore militare, dato che conosce il costo delle cartucce da acquistare in Uganda con scellini ugandesi. Ma – dice – se si hanno dollari e sterline si puň avere un vantaggio sul prezzo.

Io ho dollari e sterline…

 

“Sě, le sterline ti servirebbero anche per pagare il padre di una giovane donna” – riprende Dican.

“Comperare una donna? E’ perché?” – chiedo, sorpreso.

“Vedi, mister George, una donna, qui, ti servirebbe per diverse cose, se dovessi rimanere con noi per diversi mesi, o per un anno. Il motivo?

Primo, un uomo ha bisogno di una donna.

Secondo, una donna ti preparerebbe il cibo, andrebbe a cercare legna, frutta, verdure, tuberi commestibili e miele nella savana e nella foresta, andrebbe ad attingere acqua da bere, per cucinare e per lavare i tuoi vestiti, eccetera.

Terzo, ti accudirebbe se cadessi ammalato. Anzi, questa sarebbe la cosa piů importante. Tu rischieresti piů di un africano di prenderti febbri e malattie tropicali… Come faresti a sopravvivere senza un aiuto costante rivolto su di te?”

Devo avere assunto un aspetto pensoso e titubante.

Dican si affretta a precisare: “Mister George, non devi preoccuparti della donna. Ti verrebbe procurata una donna giovane, che ti piaccia, figlia di un capo, sana e forte di corpo, senza malattie veneree, con un buon carattere, sottomessa e onesta…”

Comincio ad incuriosirmi. “Ma, se nascesse un figlio?” – chiedo.

“Non dovresti preoccuparti di ciň, mister George. Il bambino verrebbero adottato da tutto il clan della tua donna ed uno zio di lei lo manterrebbe come se fosse un suo figlio” – precisa Dican.

 

Poi si affretta a concludere il discorso. “Certamente, se tu lo volessi, potresti fare giungere dall’Italia soldi ed aiuti per  tuo figlio. Perň, ti avviso: gli aiuti per  tuo figlio verrebbero estesi pure agli altri bambini del clan. Non č possibile – qui da noi – che un bambino possa avere tutto e gli altri nulla. Noi siamo diversi da voi bianchi”.

 

Poi sdrammatizza: “Sono sicuro che sarebbe un bellissimo bambino mulatto… Ricordi quella giovane donna che guardavi continuamente ieri sera nella capanna? E’ una mulatta”.

“Come mai, con un padre ed una madre neri č nata una donna nocciola? Evidentemente, č stato un bianco, forse un missionario, ad aver partecipato alla sua nascita. Qui, se la cosa non diventa uno scandalo, non ci si fa troppo caso. Un nuovo bambino č sempre una ricchezza per il clan.”

 

Un figlio mulatto? Sarebbe bello. Io sono per il rafforzamento della razza umana con il mescolamento delle varie razze. Perň, in Congo, quando Marie, una giovinetta di tredici anni, mi chiese di darle un “enfant créole”, un “café au lait”, un “caffelatte”, ossia un figlio mulatto, che l’avrebbe fatta diventare importante agli occhi del villaggio, io, con molta delicatezza, pur ringraziando, risposi di “no”.

 

Ritorno ad occuparmi dei bambini di Adodi.

   Prima di tutto mi cantano una nenia, dolcissima, una specie di ninna nanna. Poi, iniziano un girotondo con una filastrocca cantata, che finisce con un “tutti giů per terra!”.

   Proprio come fanno i bambini in Italia. L’avranno appresa dalle suore comboniane, che erano qui prima di essere espulse dal governo di Khartoum?

 

Guardo quei bambini. Sorridono, mi stanno intorno, mi tendono le manine, mi accarezzano i peli degli avambracci, con cui fanno piccole trecce, velocemente …

   Do loro le vitamine e metto un po’ di profumo sulle loro braccia o sul vestitino, mandandoli in visibilio. I piů piccolini che sono in braccio alle mamme, o piangono impauriti, oppure vogliono venirmi in braccio. Proprio come i bambini italiani. Allora cos’č che ci divide? La pelle, la razza, la cultura? Sono tutte scemenze! (Foto 9091929394959697).

 

E se arrivassero gli Arabi?

 

Improvvisamente, una immagine tragica mi passa davanti alla mente.

E se… se in questo momento gli Arabi attaccassero?

Impossibile, ci sono le sentinelle, li vedrebbero arrivare…

Okay, va bene… Ma se sbucassero, sparando, da quelle erbe della savana, laggiů in fondo, io, proprio io, cosa farei? Fuggirei verso la collina che č dietro di me, cercando di mettermi in salvo in Uganda, lasciando qui queste creature a farle massacrare? Oppure, prenderei un mitra, un fucile, un arco e frecce, una lancia, un’ascia, e coprirei loro la fuga a rischio della mia vita?

Oppure, senza armi, senza la possibilitŕ di difendere i bambini, cosa farei? Mi farei ammazzare insieme ad essi? E’ cosě che farei?

Sě, č proprio ciň che farei.

 

Purtroppo, č il mio carattere, questo. Ho mille difetti, ma non posso restare indifferente alle ingiustizie, all’oppressione degli inermi. Non potrei piů accettare di vivere e dimenticare, se fuggissi, lasciando questi bambini a morire da soli. Non potrei piů guardarmi allo specchio. Né guardare i miei figli… senza poter impedire che i volti di questi bimbi ritornino alla mente. (Foto 134135136137138139).

 

 

Dican nota il mio turbamento… “Cosa accade, mister George” – chiede.

Gli dico della mia paura di un improvviso attacco arabo.

Non preoccuparti, mister George, ci sono molti posti di blocco e di allarme tra Adodi e gli Arabi.  Che stanno nei loro fortini ed hanno paura di uscire.

, Dican, perň, come fecero, quando attaccarono questo villaggio? Lo attaccarono di notte, passando dall’Uganda, orientati dai fuochi di Adodi  che erano rimasti accesi, risponde Dican…

“Mio caro Dican, se, perň attaccassero adesso, io non fuggirei, difenderei questi bambini…Questo lo devi sapere” – confesso commosso.

“Questo lo so, my dear George, che non fuggiresti. So che saresti pronto a combattere con le armi insieme al Fronte. Perň, tu servi di piů in Italia, per organizzare la propaganda e gli aiuti che ci mandi, tramite mister Dol e Pancrazio Ocheng. Io vedo i pacchi che mandate e l’aiuto concreto e la forza morale che ci date con essi.”

 

Mi seggo, spossato, all’ombra di una capanna. Mi appisolo, sotto lo sguardo di una madre.

   Mentre due guerriglieri montano la guardia.

 

C’č pure un’altra paura che si era insinuata nella mia mente, fin da quando ero al “magazzino” e che ritorna nel dormiveglia: quella di essere inseguito da qualche inviato del colonnello Lagu.

 

Ormai, egli č stato informato della mia presenza nella zona interdetta dal famoso guerrigliero in tenuta kaki con la lancia, incontrato sul sentiero, e da quello in maglia rosa e pantaloncini azzurri che accompagnava i tre portatori con i nostri pacchi per il quartiere generale.

 

Lagu non mi aveva potuto rilasciare il lasciapassare, poiché la zona era compromessa dalla presenza di tre israeliani: uno di costoro addestrava militarmente, un altro addestrava con le radio ricetrasmittenti ed il terzo era un addetto alla sanitŕ.

Le due infermiere del “magazzino” erano state addestrate per tre mesi dal sanitario israeliano a Owini-Ki-Bul. Ed avevano fatto il “voto di castitŕ” per servire il Fronte come infermiere: un grosso sacrificio per una donna, il cui compito e procreare continuamente, in quanto i figli sono una benedizione di Dio ed una ricchezza per la tribů.

 

Lotte intestine

 

Sapevo fin dal 1969 che le missioni israeliane erano di stanza a Owini-Ki-Bul. Me lo aveva scritto René Dol ed io lo avevo inopportunamente riferito all’addetto militare dell’ambasciata israeliana di Roma, che non ne sapeva, ovviamente, nulla. Cosě, almeno, diceva…

 

Il risultato era stato che gli Israeliani avevano iniziato indagini… Avevano chiesto a Lagu, tramite il ponte radio, chiarimenti sulla mancanza di segretezza dell’operazione militare e Lagu aveva redarguito duramente il povero René, che a sua volta, il 18 dicembre 1969, mi scriveva: “Beninteso, io non ne faccio una tragedia, ma per l’amor di Dio, avendo a che fare con gente assai permalosa, sarebbe meglio osservare una certa riserva”.

Che gran signore René Dol… Un altro mi avrebbe mandato al diavolo, chiudendo ogni corrispondenza con uno cosě idiota da non capire ciň che si puň dire e ciň che si deve tacere.

 

Con me, René si confidava sulla situazione politica all’interno del Sud. Finalmente, adesso sembrava che tutti i capi della guerriglia si fossero sottomessi al comando del colonnello Lagu.

Come mai?

Lagu era solo un militare di carriera dell’esercito del Sudan che si era dato al bush, alla macchia. Perň, era stato scelto dagli Israeliani come punto di riferimento di tutto il Fronte.

Egli aveva, come forza di persuasione per l’”unitŕ” dei gruppi guerriglieri, le armi, i soldi, le divise, i medicinali e le vettovaglie, che gli Israeliani gli facevano avere e che egli distribuiva tra i capi guerriglieri che lo riconoscevano come capo supremo. E’ dal quartiere generale che venivano coordinate le azioni dei gruppi di guerriglia, che dimostravano fattivamente che ciň che veniva fornito loro era utilizzato con successo. Il nome in codice del Colonnello Lagu che usavamo tra di noi nella corrispondenza era “Nathan”.

 

Nel febbraio 1970, ancora non si erano, perň, messi ancora d’accordo con Lagu.

 

Infatti, era dall’inizio del 1969 che chiedevo a Lagu di avere il permesso per un safari nel bush controllato dalla guerriglia. Il permesso mi veniva sempre negato con le scuse piů diverse. La veritŕ č che non voleva fare sapere agli amici italiani che non esisteva un unico fronte di liberazione, di cui egli era capo supremo, ma che esisteva una gazzarra nella quale tutti i capi della guerriglia si dichiaravano rappresentanti del Sud Sudan.

 

Il 18 febbraio 1970, René mi scriveva una lunga lettera particolareggiata di un incontro avvenuto a casa sua a Kampala tra Joseph Lagu, leader del Southern Sudan Liberation Front, Joseph Oduho (ex-presidente dell’Azania Liberation Front, che mi aveva eletto nel 1967 suo rappresentante in Italia), Elia Lupe (quello di Arua) per l’Equatoria e “Anydi”, il maggiore Magot e il brigadiere Ali Guatala, per il governo “Anydi”,  Gordon Mayen, Stephen Ciec Lam ed Elia Dwang, per il “Nile Provisional Government”.

 

Alcuni di costoro volevano estromettere dal comando il vecchio generale Tafeng, che aveva iniziato la rivolta nel 1955.

Poi, alcuni dichiaravano che non avrebbero accettato leggi dettate da “stranieri” (cioč, dagli Israeliani). Ciň, in nome della dignitŕ, della reputazione, del prestigio del Sud Sudan…

 

Ancora una volta questi capi sud sudanesi – mi scriveva René – “diedero la prova, come se questa fosse ancora necessaria, che la parola UNITA’ non esiste nei dialetti sud sudanesi… Proprio durante questa riunione a Kampala, un gruppo di 75 guerriglieri “Anydi” aveva deciso di attaccare il quartiere generale del “Nile Provisional Government” a Bungu, bruciandolo a metŕ. Dopo tre ore e mezza di combattimento gli “Anydi” dovettero sganciarsi lasciando sul terreno otto morti e un prigioniero gravemente ferito. Il “Nile” ebbe quattro feriti. Gli otto morti e le cartucce sparate sarebbero state piů utilmente usate contro gli Arabi. Non vogliono gli aiuti condizionati per salvare l’onore, ma non si sentono disonorati di assassinare i fratelli… E noi, come tanti cretini, col cuore stretto e il nodo alla gola, pensiamo ai loro bambini, alle mamme, malcurati, malnutriti, mezzo nudi, vittime degli Arabi. Mentre a Kampala gli uomini politici discutono sulla dignitŕ, l’onore e la reputazione…”

Insomma, era avvenuta una bella scaramuccia in ricordo di antichi odi tribali e di pretese di leadership

   Cosě scriveva René. Stesse notizie mi giungevano da altre fonti.

 

Pure, Ferdinando mi scriveva da Gulu il 28 agosto 1970 che il 19 agosto  Joseph Garang, un sudista esponente del Partito Comunista Sudanese diventato ministro per il Sud nel governo di Khartoum, era andato nel campo profughi di Agago, in Uganda, insieme all’ambasciatore sudanese e alla polizia ugandese.

L’obiettivo del governo sudanese era di fare ritornare i profughi del Sud Sudan in patria, promettendo tranquillitŕ ed aiuti economici…

I profughi avevano risposto che sarebbero stati disposti a tornare a patto che Joseph Garang avesse fatto vedere che William Deng era vivo, vicino a lui. Infatti, Deng aveva iniziato a collaborare con gli Arabi come ministro per il Sud, ma, poi, era stato assassinato. Alla fine, Garang e la delegazione sudanese furono cacciati a bastonate, con lancio di sassi e malamente difesi dalla polizia ugandese.

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Avrei voluto entrare nel Sud dalla parte dell’Etiopia. Ero in contatto con Job Adier de Jok, che stava in Addis Abeba, a cui facevo arrivare aiuti direttamente dal gruppo genovese di Maria Sander.  Perň, il problema, atterrato ad Addis Abeba, era come arrivare alla cittadina etiope di frontiera, Gambela, e da lě entrare nel Sud. Viaggio troppo lungo e pieno di pericoli.

 

La saggezza avrebbe dovuto consigliare René e noi Italiani di mandare tutti al diavolo. C’erano perň i bambini innocenti; c’era, all’epoca, Ferdinando Goi che amava il Sud; c’erano uomini onestissimi come il tesoriere Pancrazio Ocheng. Costoro non li avremmo abbandonati.

 

Adesso, sembra che gli accordi siano stati presi tra le varie fazioni, con Lagu a capo.

Ma fino a quando?

 

Incontro il grande capo Lolik 

 

Adesso, pure io sono qui. Ma, comincio a temere per la mia incolumitŕ. Perciň, inizio a sentire un vuoto allo stomaco, al nervo vago, ed una frenesia che impone alle gambe di fuggire. Ma, dove? Forse, per non farmi intercettare dagli uomini di Lagu, dovrei riparare in Uganda…

 

Vengo riportato alla realtŕ da Dican che mi comunica che il grande capo Samuel Lolik Lado vuole conoscermi. Il grande capo Lolik!?! Uno dei primi deputati per il Sud al Parlamento di Khartoum!?! Questo uomo č la Storia del Sud Sudan!

Uno dei primi capi della Resistenza sud sudanese… e vuole vedere proprio me?

“E’ qui di passaggio – mi dice Dican – ed ha saputo che un giornalista italiano č ad Adodi e vuole conoscerlo”.

Andiamo ad incontrarlo. Dican mi aggiorna: il grande capo Lolik viaggia sempre con una scorta e contatta come una volta i villaggi che lo avevano eletto al Parlamento di Khartoum. Poi, dopo la rivolta del 1955, si č dato al “bush”, alla macchia… Adesso non combatte piů, data l’etŕ, ma č pur sempre una capo carismatico.

 

Lo troviamo, a circa cento metri dal villaggio, seduto all’ombra di una pianta.

   Lo abbraccio come fosse un vecchio amico e ne rimane piacevolmente sorpreso. Non č sicuro, ma pensa di avere settanta anni d’etŕ. Perň li porta bene a va in giro per il Sud con un cappello scuro a larga tesa e con una Beretta a canna lunga alla cintura, come quella della polizia stradale italiana. Probabilmente, l’avrŕ avuta dagli Israeliani, che ne hanno importate dall’Italia un considerevole numero per il loro esercito.

 

Un servo di Lolik porta, come “simbolo di comando”, una vecchia carabina turca ad un colpo, con la marca scritta con caratteri  arabi, di quelle usate dalle truppe coloniali egiziane all’epoca di Gordon Pasciŕ. Un fucile ormai č senza cartucce, ma č pur sempre un simbolo.

 

Insieme a Lolik č seduto un altro vecchio capo della guerriglia, di religione musulmana, Abdel Rahaman Sule, pure egli anziano. Non č armato. Vestito completamente di bianco e con un berretto bianco, dice di essere un imam, uno che “guida” la preghiera dei musulmani. Infatti, precisa, ci sono pure guerriglieri sud sudanesi di religione musulmana che combattono contro il Nord musulmano.

Gli Anya-Nya di religione musulmana pregano, come tutti i musulmani, cinque volte al giorno e fanno il “ramadan”. Solo che qui non si mangia quasi nulla e quindi – dice sorridendo – č un “ramadan” continuo. Dio, l’Altissimo, comprende ciň, perchč č clemente e misericordioso.

Mi raccomanda di dire, come giornalista, che non č vero che il Nord arabo e musulmano combatte contro il Sud cristiano ed animista. Il Nord combatte contro tutti i sudisti, pure se sono musulmani.

Il Nord – dice – č la punta di lancia islamica per la conquista dell’intera Africa Nera.

L’imam Sule ironizza sul fatto che egli, musulmano, ha una forte taglia messa sulla sua testa dal governo musulmano del Nord.

“Vedi – conclude Rahaman Sule – come il Governo sudanese musulmano rispetta le leggi del Corano sulla fratellanza e la giustizia che dovrebbe esistere fra musulmani?”.

Vorrei dire a Sule che ciň che mi dice lo so giŕ. Ho letto una piccola parte del Corano, che ho con me nello zaino. E’ sempre utile conoscere quale č il pensiero ideologico del “nemico”…

 

Lolik dichiara che nessuno ha mai aiutato il Fronte e che i missionari espulsi hanno dimenticato il Sud. Ciň non č vero, ma non oso contraddirlo. Si mostra scettico sulle sorti della guerra, perché – dice – gli Arabi sono troppo potenti per essere vinti sul campo di battaglia.

Chiede che si inviino in particolare medicinali e mi prega di dire al governo italiano di interessarsi alla loro sorte (Foto 104)

 

Riprendo con la restante pellicola della cinepresa e con la macchina fotografica sia Lolik, che Sule.

Pure il servo col fucile senza colpi e un guerrigliero che li accompagna, vestito di una mimetica che si č fatto con il telo di seta mimetico di un paracadute, trovato chissŕ dove. Forse, č la tela di un paracadute con cui i Sovietici riforniscono dal cielo i fortini arabi quando sono circondati da guerriglieri.

 

E’ buffo vedere con quante fogge e addirittura in modo strampalato i guerriglieri si vestono pur di avere un aspetto militaresco. Ho visto al campo un tizio alto due metri sfoggiare un elmetto verde di plastica, calzato di prepotenza in testa, con cui aveva giocato un bambino in qualche altra parte del mondo.